Questa mattina, venerdì 28, sono stato alla Scala. Davano l’Elisir d’amore
di Donizetti per bambini, 75 minuti in tutto, senza intervallo, secondo l’ormai
consueta formula delle opere ridotte dei “Grandi spettacoli per i piccoli” (foto di Brescia/Amisano/Teatro alla Scala). Mi
sono ritrovato in un teatro pieno. Ho visto anche bambini con papillon, tutti
elegantini: in fondo era la loro matinée di gala. In sala s’è sentito un po’ di
rumore e di bisbiglìo, qualche sparuta piagnucolata e qualche strilletto, ma
nel complesso ho rilevato un’attenzione ragguardevole, perfino più alta, in
proporzione, di quella mostrata da tanti pubblici adulti e dalle loro salve di
scatarrate da sanatorio.
Quanto al giudizio sullo spettacolo, mi sembra giusto dare
la precedenza al giudizio dei bambini. Per esempio dei miei, che erano con me.
Mio figlio, con i suoi 15 anni e il suo interesse piuttosto distratto e
occasionale per il teatro musicale, se la cava laconicamente con un «voto
sette».
Mia figlia, dieci anni, alla seconda opera della sua vita (solo poche settimane
fa ha “debuttato” con il Falstaff di Opera Lombardia, quello con la brillante,
tenera e colorata regia di Roberto Catalano) risponde più articolata al fuoco
di fila delle mie domande. «Il voto è 9», dice, giusto per chiarire subito.
Le cose che le sono piaciute di più? «Le mossette di Nemorino» (qui il
coreano Hun Kim), «la musica», «l’attore» (il
superbo narratore Stefano Guizzi, cui spettava di cucire insieme le scene). Non
le è tanto piaciuta, invece, Adina, Enkeleda Kamani, «perché non si capiva bene
quello che cantava». Approvato, infine, il tasso generale di comprensione dell’opera.
Dato significativo, questo, se penso che, a mia figlia, prima dello spettacolo,
mi ero limitato a raccontare l’intreccio di super-massima del libretto. Quindi
vuol dire che la cosa funziona, mi son detto. Anche perché nel foyer, alla
fine, gli artisti sono stati letteralmente assediati dai bambini che facevano
autografare loro la locandina, o che con loro si facevano fotografare.
Funziona ma bisogna intendersi. Lo spettacolo, con la cartolina
della Scala a fare da sfondo e il gamba de legn in mezzo alla scena concepiti
da Luigi Perego, è delizioso e brillante ma non è –se parliamo di ritmo, o di
velocità- “bruciante”. Per quanto compresso e compattato (non c’è il coro, fra
l’altro, ma la musica è tutta quanta di Donizetti, ottenuta da un sapiente
taglia e cuci di Alexander Krampe), e per quanto il narratore, Guizzi, sia
formidabile nel fare il suo lavoro, che è quello, come ha detto il regista
Grischa Asagaroff, «di far capire ai bambini le scene che seguono e quelle che
sono state tagliate», ebbene, questo Elisir resta pur sempre, direi, nel
perimetro sacro e consueto del teatro musicale tradizionale, con i suoi bravi recitativi
e i personaggi impacciati o sempliciotti, intrinsecamente “lenti”: tutte “anticaglie”
lontane, in definitiva, dai torrentizi modelli di intrattenimento offerti, solo
per fare un esempio, dai frenetici cartoni animati della tv. Eppure questo
Elisir è piaciuto. Un piccolo mistero che conforta.
Resta da capire se tutto ciò basti a forgiare il pubblico di
domani, scopo dichiarato di questa e di consimili iniziative. Provo a spiegarmi
meglio: l’opera “per bambini” che ormai tutti i teatri d’opera mettono in scena,
è senz’altro operazione commendevole e necessaria; ma sarà sufficiente? O dovrebbe
intervenire la formazione, insomma la scuola?
Secondo il sovrintendente Alexander Pereira, che ho intervistato
per Metro (leggi qui) alla vigilia della “primina” Under 30 dell’Attila verdiano
inaugurale, avvicinare i più giovani al teatro musicale dando loro un “repertorio”
fin dalla più tenera età è indispensabile per la semplice ragione che «così, da
grandi, non avranno paura». Asagaroff, che si immagina il suo spettacolo come “ideale”
«per bambini di età scolare, al limite anche adolescenti», allarga le braccia
quando si riferisce ai 15-18enni, perché «quasi nessuno è riuscito a catturare
i ragazzi di questa età, mentre fino ai 10-12 anni l’entusiasmo è favoloso».
Sospetto però che per “fare pubblico” debbano intervenire altri
fattori: a cominciare appunto dalla scuola e poi, naturalmente, da quella cosa
santa che è l’abitudine famigliare. Papa Wojtyla, un giorno, disse che la vera
fede è quella coltivata nelle liturgie vissute delle quotidiane abitudini, non
quella dei grandi momenti o delle grandi occasioni “spot”. Il sottoscritto, meno
celestialmente, un giorno sentì con le sue orecchie il vecchio Furcht, quello
dei pianoforti di via Manzoni a Milano, lamentarsi che «le bambine con le
trecce e con gli occhiali non esistono più!». Con la musica, e con quella cosa
delicata e preziosa che è il teatro musicale, immagino che funzioni più o meno
così, che solo un duro e continuo lavoro ai fianchi, fatto calandosi nelle cose
di tutti i giorni, possa portare frutti.
La Scala, bisogna dire, una vera formazione del pubblico non la
fa: per le recite di questo Elisir destinate al pubblico delle scuole (andranno
avanti fino al prossimo marzo; parallelamente si tengono le recite per il vasto
pubblico comune), si limita a distribuire alle classi e ai loro insegnanti dei “kit”
informativi preparati ad hoc, senza tuttavia prevedere percorsi didattici
curati da personale specializzato: considerando le migliaia di studenti
coinvolti, non sarebbe nemmeno possibile, umanamente. Ma basterà, per formare
solide basi all’abitudine? Ah, saperlo.
Altre istituzioni, intanto, i percorsi formativi li fanno eccome,
però. Vedi per esempio l’Aslico con Opera Education (già il nome), sotto la
regia di Barbara Minghetti. O il Regio di Torino con i laboratori per i più
piccoli (Operando) o l’introduzione all’opera per gli adolescenti (All’Opera
Ragazzi, 11-18 anni), sotto la regia di Elisabetta Lipeti. La quale, a me,
sulla situazione generale dell’istruzione, ha detto, dandomi un quadro
sconfortante: «Noi portiamo i ragazzi all’Opera. Ma manca il contesto. La
musica si studia nei tre anni delle medie e basta. Alfabetizziamo gli
insegnanti sminuzzando tutto. Sembrano banalità, a noi, ma sono proprio queste
le cose di cui hanno bisogno…».
Riuscire a misurare esattamente i risultati è un’altra faccenda. C’è
chi sembra scettico. Sulla Stampa; lo scorso 11 ottobre, il
critico Giorgio Pestelli, nel bel mezzo di una recensione sul Trovatore che
aveva inaugurato la stagione del Regio torinese, infilava una frase così: «Si
parla di un invito ai giovani, ma come il melodramma più tradizionale possa
attirarli, resta una sfida di prima categoria (io da giovane detestavo l’opera)».
Chiudo, per ora, con una forte raccomandazione di Richard Strauss
tratta da Note di passaggio – riflessioni e ricordi (Edt). In una lettera sul
ginnasio umanistico al professor Reisinger, il sommo scriveva: «Già l’antica
religione cinese (Confucio) contiene, come una delle tre esigenze primarie, “l’esercizio
della musica”. Consiglio dunque di dedicare in futuro nei piani di studio delle
sei classi superiori tre ore la settimana alla musica (un’ora di teoria, due di
pianoforte). In tal modo, entro cinque-dieci anni due terzi di coloro che
avranno conseguito la maturità classica costituiranno la base di un pubblico
dei concerti e dei teatri per il quale varrà veramente la pena di rappresentare
un Tristano…».
Troppo esigente?