venerdì 28 dicembre 2018

Elisir d'amore, la Scala dei bambini




Questa mattina, venerdì 28, sono stato alla Scala. Davano l’Elisir d’amore di Donizetti per bambini, 75 minuti in tutto, senza intervallo, secondo l’ormai consueta formula delle opere ridotte dei “Grandi spettacoli per i piccoli” (foto di Brescia/Amisano/Teatro alla Scala). Mi sono ritrovato in un teatro pieno. Ho visto anche bambini con papillon, tutti elegantini: in fondo era la loro matinée di gala. In sala s’è sentito un po’ di rumore e di bisbiglìo, qualche sparuta piagnucolata e qualche strilletto, ma nel complesso ho rilevato un’attenzione ragguardevole, perfino più alta, in proporzione, di quella mostrata da tanti pubblici adulti e dalle loro salve di scatarrate da sanatorio.

Quanto al giudizio sullo spettacolo, mi sembra giusto dare la precedenza al giudizio dei bambini. Per esempio dei miei, che erano con me. Mio figlio, con i suoi 15 anni e il suo interesse piuttosto distratto e occasionale per il teatro musicale, se la cava laconicamente con un «voto sette». Mia figlia, dieci anni, alla seconda opera della sua vita (solo poche settimane fa ha “debuttato” con il Falstaff di Opera Lombardia, quello con la brillante, tenera e colorata regia di Roberto Catalano) risponde più articolata al fuoco di fila delle mie domande. «Il voto è 9», dice, giusto per chiarire subito. Le cose che le sono piaciute di più? «Le mossette di Nemorino» (qui il coreano Hun Kim), «la musica», «l’attore» (il superbo narratore Stefano Guizzi, cui spettava di cucire insieme le scene). Non le è tanto piaciuta, invece, Adina, Enkeleda Kamani, «perché non si capiva bene quello che cantava». Approvato, infine, il tasso generale di comprensione dell’opera. Dato significativo, questo, se penso che, a mia figlia, prima dello spettacolo, mi ero limitato a raccontare l’intreccio di super-massima del libretto. Quindi vuol dire che la cosa funziona, mi son detto. Anche perché nel foyer, alla fine, gli artisti sono stati letteralmente assediati dai bambini che facevano autografare loro la locandina, o che con loro si facevano fotografare.



Funziona ma bisogna intendersi. Lo spettacolo, con la cartolina della Scala a fare da sfondo e il gamba de legn in mezzo alla scena concepiti da Luigi Perego, è delizioso e brillante ma non è –se parliamo di ritmo, o di velocità- “bruciante”. Per quanto compresso e compattato (non c’è il coro, fra l’altro, ma la musica è tutta quanta di Donizetti, ottenuta da un sapiente taglia e cuci di Alexander Krampe), e per quanto il narratore, Guizzi, sia formidabile nel fare il suo lavoro, che è quello, come ha detto il regista Grischa Asagaroff, «di far capire ai bambini le scene che seguono e quelle che sono state tagliate», ebbene, questo Elisir resta pur sempre, direi, nel perimetro sacro e consueto del teatro musicale tradizionale, con i suoi bravi recitativi e i personaggi impacciati o sempliciotti, intrinsecamente “lenti”: tutte “anticaglie” lontane, in definitiva, dai torrentizi modelli di intrattenimento offerti, solo per fare un esempio, dai frenetici cartoni animati della tv. Eppure questo Elisir è piaciuto. Un piccolo mistero che conforta.

Resta da capire se tutto ciò basti a forgiare il pubblico di domani, scopo dichiarato di questa e di consimili iniziative. Provo a spiegarmi meglio: l’opera “per bambini” che ormai tutti i teatri d’opera mettono in scena, è senz’altro operazione commendevole e necessaria; ma sarà sufficiente? O dovrebbe intervenire la formazione, insomma la scuola?



Secondo il sovrintendente Alexander Pereira, che ho intervistato per Metro (leggi qui) alla vigilia della “primina” Under 30 dell’Attila verdiano inaugurale, avvicinare i più giovani al teatro musicale dando loro un “repertorio” fin dalla più tenera età è indispensabile per la semplice ragione che «così, da grandi, non avranno paura». Asagaroff, che si immagina il suo spettacolo come “ideale” «per bambini di età scolare, al limite anche adolescenti», allarga le braccia quando si riferisce ai 15-18enni, perché «quasi nessuno è riuscito a catturare i ragazzi di questa età, mentre fino ai 10-12 anni l’entusiasmo è favoloso».

Sospetto però che per “fare pubblico” debbano intervenire altri fattori: a cominciare appunto dalla scuola e poi, naturalmente, da quella cosa santa che è l’abitudine famigliare. Papa Wojtyla, un giorno, disse che la vera fede è quella coltivata nelle liturgie vissute delle quotidiane abitudini, non quella dei grandi momenti o delle grandi occasioni “spot”. Il sottoscritto, meno celestialmente, un giorno sentì con le sue orecchie il vecchio Furcht, quello dei pianoforti di via Manzoni a Milano, lamentarsi che «le bambine con le trecce e con gli occhiali non esistono più!». Con la musica, e con quella cosa delicata e preziosa che è il teatro musicale, immagino che funzioni più o meno così, che solo un duro e continuo lavoro ai fianchi, fatto calandosi nelle cose di tutti i giorni, possa portare frutti.



La Scala, bisogna dire, una vera formazione del pubblico non la fa: per le recite di questo Elisir destinate al pubblico delle scuole (andranno avanti fino al prossimo marzo; parallelamente si tengono le recite per il vasto pubblico comune), si limita a distribuire alle classi e ai loro insegnanti dei “kit” informativi preparati ad hoc, senza tuttavia prevedere percorsi didattici curati da personale specializzato: considerando le migliaia di studenti coinvolti, non sarebbe nemmeno possibile, umanamente. Ma basterà, per formare solide basi all’abitudine? Ah, saperlo.

Altre istituzioni, intanto, i percorsi formativi li fanno eccome, però. Vedi per esempio l’Aslico con Opera Education (già il nome), sotto la regia di Barbara Minghetti. O il Regio di Torino con i laboratori per i più piccoli (Operando) o l’introduzione all’opera per gli adolescenti (All’Opera Ragazzi, 11-18 anni), sotto la regia di Elisabetta Lipeti. La quale, a me, sulla situazione generale dell’istruzione, ha detto, dandomi un quadro sconfortante: «Noi portiamo i ragazzi all’Opera. Ma manca il contesto. La musica si studia nei tre anni delle medie e basta. Alfabetizziamo gli insegnanti sminuzzando tutto. Sembrano banalità, a noi, ma sono proprio queste le cose di cui hanno bisogno…».

Riuscire a misurare esattamente i risultati è un’altra faccenda. C’è chi sembra scettico. Sulla Stampa; lo scorso 11 ottobre, il critico Giorgio Pestelli, nel bel mezzo di una recensione sul Trovatore che aveva inaugurato la stagione del Regio torinese, infilava una frase così: «Si parla di un invito ai giovani, ma come il melodramma più tradizionale possa attirarli, resta una sfida di prima categoria (io da giovane detestavo l’opera)».



Chiudo, per ora, con una forte raccomandazione di Richard Strauss tratta da Note di passaggio – riflessioni e ricordi (Edt). In una lettera sul ginnasio umanistico al professor Reisinger, il sommo scriveva: «Già l’antica religione cinese (Confucio) contiene, come una delle tre esigenze primarie, “l’esercizio della musica”. Consiglio dunque di dedicare in futuro nei piani di studio delle sei classi superiori tre ore la settimana alla musica (un’ora di teoria, due di pianoforte). In tal modo, entro cinque-dieci anni due terzi di coloro che avranno conseguito la maturità classica costituiranno la base di un pubblico dei concerti e dei teatri per il quale varrà veramente la pena di rappresentare un Tristano…».

Troppo esigente?

lunedì 17 dicembre 2018

Le grane del Festival Verdi



Ho intervistato, su Metro (leggi qui), Anna Maria Meo, direttore generale del Teatro Regio di Parma. Il Festival Verdi, a edizione 2019 già annunciata, rischia un ridimensionamento: dal Fus sono arrivati 600 mila euro in meno del previsto, la sentenza del Tar (cui il Regio si è rivolto) arriverà solo il prossimo 14 maggio, quando sarà oggettivamente tardi per una macchina già in moto, si lavora pancia a terra per colmare il gap, e via sacramentando.

L'intervista contiene tecnicismi, forse è un po' lunga, ma può essere interessante, credo, un punto di vista ravvicinato di un organizzatore musicale sulla famigerata questione del 5%, il limite all'incremento dei finanziamenti del Fus, introdotto dal decreto del 30 settembre 2016 (e da successiva decisione ministeriale nel febbraio 2018) a modificare il decreto del 1° luglio 2014, che ha suscitato la protesta, tra gli altri, e da me già segnalata in un precedente post, di Elio De Capitani dell'Elfo di Milano. Ne cito, qui, volentieri, una frase, tratta dal suo saggio Il pubblico ha sempre ragione?, pubblicato da Istituto Bruno Leoni Libri: "E' evidente che non può stare in piedi un finanziamento pubblico all'arte dove un cubo di marmo scolpito da me e uno scolpito da Michelangelo Buonarroti vengano giudicati identici dal punto di vista artistico a parità di peso e di volume. Peggio ancora se una mia scultura di pochi grammi più pesante di quella di Michelangelo entri in una classe di finanziamento superiore finanziata il 30% o il 50% in più...".



Sia la Meo che De Capitani indicano nel 5% il punto massimo di iniquità nella redistribuzione delle risorse dello spettacolo. Entrambi auspicano che gli effetti dell'applicazione di questo "numerino" vengano almeno parzialmente corretti dall'iniezione di risorse aggiuntive.

Si aspetta, a questo punto, che il Mibact di Bonisoli batta un colpo...



sabato 8 dicembre 2018

La Prima della Scala: qualche punzecchiatura all'Attila




Qualche punzecchiatura, nel generale consenso, per questo Attila verdiano del Sant'Ambrogio scaligero (le due foto in apertura sono di Brescia/Amisano/Teatro alla Scala). Ecco una rassegna stampa minima della critica musicale nostrana (dai giornali dell'8 dicembre):



Sandro Cappelletto (La Stampa): la voce di basso di Ildar Abdrazakov "scende nel profondo e svetta granitica, ma non è altrettanto sensibile nell'esprimere angoscia"; Saioa Hernandez, Odabella, "esita nell'entrata sfolgorante", salvo poi emergere "con autorevole sicurezza"; il regista Davide Livermore viene accreditato, per così dire, di "applausi e buate in egual misura" (e non isolati e minimi dissensi, come si legge su Repubblica, vedi più sotto), mentre la sua citazione di Roma città aperta è "inopportuna".



Enrico Girardi (Corriere della sera), di Livermore, elogia sì la regia, ma con una postilla: "Ma forse l'unico difetto consiste in un'omissione. Non è difficile, cioè, rispondere alla domanda se Odabella sia più attratta dall'eroe nobile e puro che non conosce la paura o da quel lagnoso del suo fidanzato. Ma questa domanda il regista sembra non porsela. Ed è un peccato". L'Odabella di Saioa Hernandez non passa con lode la difficilissima sortita (troppa emozione?)", ma "recupera man mano nel declamato la disinvoltura dell'eroina che sa riconoscere la statura del nemico".

Carla Moreni (Il Sole 24 Ore, online) eccepisce 1) sulla presenza della buca del suggeritore, una scelta "inspiegabile" in uno "spettacolo visivamente tanto definito", 2) sul coro diretto da Bruno Casoni, "appassionato ma non immacolato negli appiombi", 3) sul finale dello spettacolo ("quando la scena da Berlino nazismo anni Quaranta rimane vuota [...] ancora ritorna quel breve filmato della bambina Odabella [...] E' un frammento che abbiamo già visto. Ci ha già adeguatamente commosso. Non era il caso di ripeterlo, sciupandolo come una didascalia") e, infine, 4) sul commento visivo alle cinque battute di Rossini inserite da Riccardo Chailly ("non serve il rosso che inonda tutta la vetrata in scena  quando ascoltiamo le fatidiche cinque battute rossiniane aggiunte. Rosso-Rossini è un ammicco spiritoso. Ma in tanta carneficina, nell'Attila con più pistole e morti mai visti, sorridere da spettatori riesce difficile").



Quanto, ancora, ai dissensi per Livermore, Paola Zonca su Repubblica parla solo di "un paio di buu piovuti dal loggione". Poca roba, rispetto a quanto lascia intendere Cappelletto. Abbastanza, però, per incitare il regista a una reazione aspra e piccata: "Io non li ho sentiti. E poi c'è sempre qualcuno che è in cerca di visibilità, se la veda con la sua coscienza o con il suo psicanalista...".

Angelo Foletto, sempre su Repubblica, sullo spettacolo e sul regista è comunque più che positivo: "Nell'imperfezione e nel disordine narrativo di Attila, Davide Livermore si è divertito", e si è preso "tutti i rischi, le bizzarrie e le libertà registiche e tecnologiche possibili, ma è stato certosino nell'osservare le 'didascalie musicali'. Così lo spettacolo ha messo (quasi) tutti d'accordo".

Bene gli altri, come si dice...

P.S.
Piccolo aggiornamento. Sul Corriere di domenica 9 dicembre, Giuseppina Manin intervista Ildar Abdrazakov. Gli chiede, quasi seguendo la critica fatta dal critico Girardi a Livermore (leggi sopra): «Difficile credere che Odabella non sia in qualche modo innamorata di lui», cioè di Attila. E Ildar le risponde: «Livermore aveva pensato a un bacio, che lei avrebbe dovuto dargli prima di ucciderlo. Ma poi, con tutto quello che succede in quel momento, diventava complicato».
Quando si dice il gioco di squadra.




venerdì 7 dicembre 2018

I conti in tasca all'Opera e al Fus: Parma alla guerra del Tar

Il teatro d'opera, in Italia, è pur sempre una questione di vil denaro. Ce lo ricorda la vicenda della Fondazione Teatro Verdi di Parma che, dopo aver avuto le briciole (112 mila euro contro gli attesi 726 mila) per il suo Festival Verdi, rinato -bisogna dirlo- sotto la guida di Anna Maria Meo, ha fatto ricorso al Tar del Lazio contro i criteri di ripartizione del Fus. Alla notizia, già data lo scorso 25 novembre da Il Sole 24 Ore, che vi dedicò un approfondito servizio di Antonello Cherchi,




si è aggiunto il 6 dicembre un servizio della Gazzetta di Parma a firma Mara Pedrabissi, che dà altri particolari: la prima udienza, il 27 novembre, si è conclusa con un rinvio, su richiesta del ministero dei beni culturali; la seconda è fissata per l'11 dicembre; la Fondazione si è fatta rappresentare da Aristide Police, ordinario di diritto amministrativo di Tor Vergata. Non solo: è sempre la Gazzetta di Parma a intervistare il sindaco Pizzarotti. Il quale tira dritto: finanziamenti o meno, il Festival Verdi si farà ancora, eccome, visti e considerati i successi mietuti, che hanno spinto la Fondazione a pubblicare il bilancio dell'edizione 2018 (la prima con la prestigiosa direzione musicale di Roberto Abbado) in una grande inserzione sul Corriere della Sera di venerdì 6 dicembre:



La materia del ricorso parmense è complessa ma merita di essere riassunta. Perché tocca i "parametri", dibattutissimi, che regolano l'attribuzione dei finanziamenti ministeriali. E dunque la vita stessa del teatro in Italia. Ecco perché, titola il Sole, il Tar ha nelle sue mani, nientemeno, "il destino dei fondi per lo spettacolo".

In sintesi (tenendo come traccia il servizio del Sole): nel triennio 2015-2017, il Regio di Parma aveva partecipato alla ripartizione del Fus nelle categorie "Teatri di tradizione" e "Programmazione di attività concertistiche e corali"; per il triennio successivo, 2018-2020, il Regio ha lasciato cadere quest'ultima categoria per concorrere invece in quella dei "Festival di assoluto prestigio" (e ne ha ben d'onde, dal momento che il Festival Verdi è stato riconosciuto per legge, appunto, quale festival di assoluto prestigio). 



Qui nasce l'inghippo. Perché è vero che, in questa categoria, il Regio ha un punteggio più alto rispetto al ROF rossiniano di Pesaro e al Festival pucciniano di Torre del Lago (in tre devono spartirsi 1,8 milioni di euro), ma è anche vero che i finanziamenti che deriverebbero da quel punteggio devono tener conto di due parametri: le risorse assegnate ogni anno all'interno del triennio non possono superare del 5% le risorse assegnate l'anno precedente, né possono essere inferiori al 70% della media di quelle dei tre anni precedenti. La ragione per cui il Regio si è visto assegnare soltanto 112 mila euro, è che al ministero "hanno preso in considerazione le somme ricevute dalla Fondazione l'anno prima ma per un settore diverso, quello, appunto, della Programmazione di attività concertistiche e corali, e hanno applicato il limite del 5%". La conclusione, continua il Sole, è sconsolante: "Di questo passo, al teatro di Parma ci vorranno decine se non centinaia di anni per recuperare il gap di finanziamenti con i competitors. Infatti, potrà sperare di incrementare ogni anno la quota assegnata, ma dovrà continuamente fare i conti con il vincolo di non poter andare oltre il 5% di quanto ricevuto l'anno prima". Visto che la base di partenza è 112 mila euro...

A proposito: segnalo che nessuno come Elio De Capitani, anima del milanese Teatro dell'Elfo, ha causticamente criticato il criterio del 5%. Lo ha fatto scrivendo il saggio Il teatro e il nuovo sistema di assegnazione dei contributi pubblici all'interno de Il pubblico ha sempre ragione? (Istituto Bruno Leoni):




Citando De Capitani, "il 16 febbraio 2018, pochi giorni dopo la chiusura del termine delle domande per il secondo triennio, il Mibac faceva approvare dalla Consulta dello Spettacolo -senza alcun dibattito- l'incremento massimo dei contributi al livello ancora inferiore (rispetto al 7% originario, ndr) del 5% e per l'intero triennio". E questo limite "penalizza proprio i progetti più in espansione, tutelando gli alti incrementi contributivi ottenuti tutti in una volta nel 2015 (unico anno senza limite) da alcune realtà -e mantenuti di fatto nel triennio- bloccando così la crescita dei progetti più dinamici".

Termino il mio odierno "follow the money" facendo qualche considerazione personale sull'inchiesta firmata da Milena Gabanelli e Paolo Conti sul Corriere della Sera di giovedì 6 dicembre:


1) Scrivere, come si scrive nel cappello, che "in Italia il mondo operistico è un problema economico", equivale a dire che anche il servizio sanitario nazionale, la scuola, i musei o le biblioteche, tutti "enti" del tutto incapaci, costituzionalmente, di "stare sul mercato", sono "problemi economici";

2) Scrivere che "nel 1996 gli enti lirici erano così indebitati che dovevano fallire tutti. Li salva la Riforma Melandri..." significa trascurare il fatto che la trasformazione degli enti lirici in Fondazioni di diritto privato, più che una salvezza, è stata forse una condanna, o almeno come tale è vissuta da tutti quei teatri per i quali reperire importanti risorse private è stato ed è, del tutto comprensibilmente, una "mission impossible". Inoltre, fu la "legge Veltroni" ad avviare il processo, non la riforma Melandri (che, se non ricordo male, si riferiva ai diritti tv nello sport);

3) Scrivere che "camminano sulle loro gambe" Santa Cecilia di Roma, la Fenice di Venezia "e ovviamente la Scala di Milano" è usare un'espressione equivoca: la quota di finanziamenti privati è importante, addirittura nel caso della Scala prevalente, ma è pur vero che senza i finanziamenti pubblici, puramente e semplicemente, nemmeno alla grande Scala si pagherebbero gli stipendi ai dipendenti;

4) In Italia capita questo, per esempio: che chi guida un teatro venga prima privato di fondi dagli enti pubblici che dovrebbero sostenerlo, e poi esposto al pubblico disprezzo per il "buco" prodotto. E' più o meno quello che è successo a quel galantuomo di Walter Vergnano, costretto a lasciare la guida, da sovrintendente, del Teatro Regio di Torino. In una lettera pubblicata da La Stampa il 7 ottobre scorso, Vergnano ha sommessamente ricordato "la progressiva riduzione dei contributi da parte degli enti locali, Comune e Regione: sono passati da 15 milioni di euro del 2005, ad esempio, agli attuali 6,4 milioni del 2017 (4 dal Comune, 2,4 dalla Regione". Capito?

E chiuderei qui. Buon Sant'Ambrogio a tutti.