venerdì 7 dicembre 2018

I conti in tasca all'Opera e al Fus: Parma alla guerra del Tar

Il teatro d'opera, in Italia, è pur sempre una questione di vil denaro. Ce lo ricorda la vicenda della Fondazione Teatro Verdi di Parma che, dopo aver avuto le briciole (112 mila euro contro gli attesi 726 mila) per il suo Festival Verdi, rinato -bisogna dirlo- sotto la guida di Anna Maria Meo, ha fatto ricorso al Tar del Lazio contro i criteri di ripartizione del Fus. Alla notizia, già data lo scorso 25 novembre da Il Sole 24 Ore, che vi dedicò un approfondito servizio di Antonello Cherchi,




si è aggiunto il 6 dicembre un servizio della Gazzetta di Parma a firma Mara Pedrabissi, che dà altri particolari: la prima udienza, il 27 novembre, si è conclusa con un rinvio, su richiesta del ministero dei beni culturali; la seconda è fissata per l'11 dicembre; la Fondazione si è fatta rappresentare da Aristide Police, ordinario di diritto amministrativo di Tor Vergata. Non solo: è sempre la Gazzetta di Parma a intervistare il sindaco Pizzarotti. Il quale tira dritto: finanziamenti o meno, il Festival Verdi si farà ancora, eccome, visti e considerati i successi mietuti, che hanno spinto la Fondazione a pubblicare il bilancio dell'edizione 2018 (la prima con la prestigiosa direzione musicale di Roberto Abbado) in una grande inserzione sul Corriere della Sera di venerdì 6 dicembre:



La materia del ricorso parmense è complessa ma merita di essere riassunta. Perché tocca i "parametri", dibattutissimi, che regolano l'attribuzione dei finanziamenti ministeriali. E dunque la vita stessa del teatro in Italia. Ecco perché, titola il Sole, il Tar ha nelle sue mani, nientemeno, "il destino dei fondi per lo spettacolo".

In sintesi (tenendo come traccia il servizio del Sole): nel triennio 2015-2017, il Regio di Parma aveva partecipato alla ripartizione del Fus nelle categorie "Teatri di tradizione" e "Programmazione di attività concertistiche e corali"; per il triennio successivo, 2018-2020, il Regio ha lasciato cadere quest'ultima categoria per concorrere invece in quella dei "Festival di assoluto prestigio" (e ne ha ben d'onde, dal momento che il Festival Verdi è stato riconosciuto per legge, appunto, quale festival di assoluto prestigio). 



Qui nasce l'inghippo. Perché è vero che, in questa categoria, il Regio ha un punteggio più alto rispetto al ROF rossiniano di Pesaro e al Festival pucciniano di Torre del Lago (in tre devono spartirsi 1,8 milioni di euro), ma è anche vero che i finanziamenti che deriverebbero da quel punteggio devono tener conto di due parametri: le risorse assegnate ogni anno all'interno del triennio non possono superare del 5% le risorse assegnate l'anno precedente, né possono essere inferiori al 70% della media di quelle dei tre anni precedenti. La ragione per cui il Regio si è visto assegnare soltanto 112 mila euro, è che al ministero "hanno preso in considerazione le somme ricevute dalla Fondazione l'anno prima ma per un settore diverso, quello, appunto, della Programmazione di attività concertistiche e corali, e hanno applicato il limite del 5%". La conclusione, continua il Sole, è sconsolante: "Di questo passo, al teatro di Parma ci vorranno decine se non centinaia di anni per recuperare il gap di finanziamenti con i competitors. Infatti, potrà sperare di incrementare ogni anno la quota assegnata, ma dovrà continuamente fare i conti con il vincolo di non poter andare oltre il 5% di quanto ricevuto l'anno prima". Visto che la base di partenza è 112 mila euro...

A proposito: segnalo che nessuno come Elio De Capitani, anima del milanese Teatro dell'Elfo, ha causticamente criticato il criterio del 5%. Lo ha fatto scrivendo il saggio Il teatro e il nuovo sistema di assegnazione dei contributi pubblici all'interno de Il pubblico ha sempre ragione? (Istituto Bruno Leoni):




Citando De Capitani, "il 16 febbraio 2018, pochi giorni dopo la chiusura del termine delle domande per il secondo triennio, il Mibac faceva approvare dalla Consulta dello Spettacolo -senza alcun dibattito- l'incremento massimo dei contributi al livello ancora inferiore (rispetto al 7% originario, ndr) del 5% e per l'intero triennio". E questo limite "penalizza proprio i progetti più in espansione, tutelando gli alti incrementi contributivi ottenuti tutti in una volta nel 2015 (unico anno senza limite) da alcune realtà -e mantenuti di fatto nel triennio- bloccando così la crescita dei progetti più dinamici".

Termino il mio odierno "follow the money" facendo qualche considerazione personale sull'inchiesta firmata da Milena Gabanelli e Paolo Conti sul Corriere della Sera di giovedì 6 dicembre:


1) Scrivere, come si scrive nel cappello, che "in Italia il mondo operistico è un problema economico", equivale a dire che anche il servizio sanitario nazionale, la scuola, i musei o le biblioteche, tutti "enti" del tutto incapaci, costituzionalmente, di "stare sul mercato", sono "problemi economici";

2) Scrivere che "nel 1996 gli enti lirici erano così indebitati che dovevano fallire tutti. Li salva la Riforma Melandri..." significa trascurare il fatto che la trasformazione degli enti lirici in Fondazioni di diritto privato, più che una salvezza, è stata forse una condanna, o almeno come tale è vissuta da tutti quei teatri per i quali reperire importanti risorse private è stato ed è, del tutto comprensibilmente, una "mission impossible". Inoltre, fu la "legge Veltroni" ad avviare il processo, non la riforma Melandri (che, se non ricordo male, si riferiva ai diritti tv nello sport);

3) Scrivere che "camminano sulle loro gambe" Santa Cecilia di Roma, la Fenice di Venezia "e ovviamente la Scala di Milano" è usare un'espressione equivoca: la quota di finanziamenti privati è importante, addirittura nel caso della Scala prevalente, ma è pur vero che senza i finanziamenti pubblici, puramente e semplicemente, nemmeno alla grande Scala si pagherebbero gli stipendi ai dipendenti;

4) In Italia capita questo, per esempio: che chi guida un teatro venga prima privato di fondi dagli enti pubblici che dovrebbero sostenerlo, e poi esposto al pubblico disprezzo per il "buco" prodotto. E' più o meno quello che è successo a quel galantuomo di Walter Vergnano, costretto a lasciare la guida, da sovrintendente, del Teatro Regio di Torino. In una lettera pubblicata da La Stampa il 7 ottobre scorso, Vergnano ha sommessamente ricordato "la progressiva riduzione dei contributi da parte degli enti locali, Comune e Regione: sono passati da 15 milioni di euro del 2005, ad esempio, agli attuali 6,4 milioni del 2017 (4 dal Comune, 2,4 dalla Regione". Capito?

E chiuderei qui. Buon Sant'Ambrogio a tutti.

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