sabato 8 dicembre 2018

La Prima della Scala: qualche punzecchiatura all'Attila




Qualche punzecchiatura, nel generale consenso, per questo Attila verdiano del Sant'Ambrogio scaligero (le due foto in apertura sono di Brescia/Amisano/Teatro alla Scala). Ecco una rassegna stampa minima della critica musicale nostrana (dai giornali dell'8 dicembre):



Sandro Cappelletto (La Stampa): la voce di basso di Ildar Abdrazakov "scende nel profondo e svetta granitica, ma non è altrettanto sensibile nell'esprimere angoscia"; Saioa Hernandez, Odabella, "esita nell'entrata sfolgorante", salvo poi emergere "con autorevole sicurezza"; il regista Davide Livermore viene accreditato, per così dire, di "applausi e buate in egual misura" (e non isolati e minimi dissensi, come si legge su Repubblica, vedi più sotto), mentre la sua citazione di Roma città aperta è "inopportuna".



Enrico Girardi (Corriere della sera), di Livermore, elogia sì la regia, ma con una postilla: "Ma forse l'unico difetto consiste in un'omissione. Non è difficile, cioè, rispondere alla domanda se Odabella sia più attratta dall'eroe nobile e puro che non conosce la paura o da quel lagnoso del suo fidanzato. Ma questa domanda il regista sembra non porsela. Ed è un peccato". L'Odabella di Saioa Hernandez non passa con lode la difficilissima sortita (troppa emozione?)", ma "recupera man mano nel declamato la disinvoltura dell'eroina che sa riconoscere la statura del nemico".

Carla Moreni (Il Sole 24 Ore, online) eccepisce 1) sulla presenza della buca del suggeritore, una scelta "inspiegabile" in uno "spettacolo visivamente tanto definito", 2) sul coro diretto da Bruno Casoni, "appassionato ma non immacolato negli appiombi", 3) sul finale dello spettacolo ("quando la scena da Berlino nazismo anni Quaranta rimane vuota [...] ancora ritorna quel breve filmato della bambina Odabella [...] E' un frammento che abbiamo già visto. Ci ha già adeguatamente commosso. Non era il caso di ripeterlo, sciupandolo come una didascalia") e, infine, 4) sul commento visivo alle cinque battute di Rossini inserite da Riccardo Chailly ("non serve il rosso che inonda tutta la vetrata in scena  quando ascoltiamo le fatidiche cinque battute rossiniane aggiunte. Rosso-Rossini è un ammicco spiritoso. Ma in tanta carneficina, nell'Attila con più pistole e morti mai visti, sorridere da spettatori riesce difficile").



Quanto, ancora, ai dissensi per Livermore, Paola Zonca su Repubblica parla solo di "un paio di buu piovuti dal loggione". Poca roba, rispetto a quanto lascia intendere Cappelletto. Abbastanza, però, per incitare il regista a una reazione aspra e piccata: "Io non li ho sentiti. E poi c'è sempre qualcuno che è in cerca di visibilità, se la veda con la sua coscienza o con il suo psicanalista...".

Angelo Foletto, sempre su Repubblica, sullo spettacolo e sul regista è comunque più che positivo: "Nell'imperfezione e nel disordine narrativo di Attila, Davide Livermore si è divertito", e si è preso "tutti i rischi, le bizzarrie e le libertà registiche e tecnologiche possibili, ma è stato certosino nell'osservare le 'didascalie musicali'. Così lo spettacolo ha messo (quasi) tutti d'accordo".

Bene gli altri, come si dice...

P.S.
Piccolo aggiornamento. Sul Corriere di domenica 9 dicembre, Giuseppina Manin intervista Ildar Abdrazakov. Gli chiede, quasi seguendo la critica fatta dal critico Girardi a Livermore (leggi sopra): «Difficile credere che Odabella non sia in qualche modo innamorata di lui», cioè di Attila. E Ildar le risponde: «Livermore aveva pensato a un bacio, che lei avrebbe dovuto dargli prima di ucciderlo. Ma poi, con tutto quello che succede in quel momento, diventava complicato».
Quando si dice il gioco di squadra.




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